Montagna, da maneggiare con cura
In montagna si può vivere, si può lavorare, si può produrre cibo buono, pulito e giusto: è il messaggio che Slow Food lancia da Terra Madre Salone del Gusto 2024, a Parco Dora fino al 30 settembre. Si può fare, e lo dimostrano pastori, casare, contadine, castanicoltori, apicoltrici che si sono dati appuntamento a Torino per raccontare al pubblico il loro lavoro, a patto che non si applichi alle terre alte lo stesso modello di sviluppo che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ha causato lo svuotamento delle aree interne.
Secondo Rossano Pazzagli, docente di Storia moderna presso l’Università degli Studi del Molise, «bisogna uscire dalla logica dei numeri per entrare in quella della qualità della vita. Si tratta di sostituire al modello basato su competizione, crescita e velocità, un approccio orientato alla cooperazione, all’equilibrio, alla lentezza». Di ricette, dice, «non ne esistono: ma ci sono esempi». Uno di questi è l’agronomo forestale Carlo Murer che a Valmorel, in provincia di Belluno, insieme ad alcuni amici ha preso in gestione una malga e oggi lavora il latte delle loro vacche in una delle ultime tre latterie turnarie d’Italia, luoghi simbolo della cooperazione montanara. «Fino a qualche decennio fa, da noi c’erano quattro malghe e si allevavano 500 capi – racconta Murer –. Oggi due di quelle strutture sono diventati ostelli e le altre hanno visto ridursi la superficie disponibile al pascolo a causa dell’avanzata del bosco». L’avanzata del bosco, che «oggi occupa il 40% della superficie dell’Italia, per complessivi 12 milioni di ettari» ricorda il presidente di Uncem Marco Bussone, non è necessariamente un buon segnale per la biodiversità, perché coincide con la perdita di terreni un tempo lavorati e custoditi, e per questo anche messi in sicurezza da incendi, frane e smottamenti, dissesti idrogeologici. We are nature, il claim scelto per l’edizione 2024 di Terra Madre Salone del Gusto, significa anche questo: che uomo e natura non sono in antitesi, e che una corretta gestione delle attività antropiche negli ecosistemi naturali può generare benefici per tutti: emblematico, sotto questo profilo, il progetto Salviamo i prati stabili e i pascoli, da pochi giorni entrato ufficialmente a far parte dei Presìdi Slow Food.
Le terre alte non sono però soltanto pascoli e allevamento: in una borgata di Ostana (Cuneo), a 1500 metri di quota, Serena Giraudo coltiva verdure, patate, legumi, cereali e frutta su due ettari di terreni in forte pendenza, un tempo abbandonati: «Produco in biologico e trasformo alcuni dei prodotti in composte» spiega. A causa della morfologia dei terreni la fatica è davvero tanta, ma «continuo a pensare di vivere in un luogo privilegiato. In ogni caso bisogna fare attenzione a non idealizzare la scelta di vivere in montagna: le difficoltà ci sono – sottolinea –, ad esempio ai disagi in caso di nevicate, che possono causare l’isolamento».
Sul piatto della bilancia, in effetti, vanno posti anche alcuni limiti infrastrutturali delle terre alte. «Tra il 1950 e il 1970 il nostro Paese ha vissuto una grande trasformazione che è stata chiamata con nomi altisonanti come boom e miracolo – aggiunge Pazzagli – ma che in realtà è stato uno sviluppo squilibrato, che ha accentuato le disparità tra pianura e terre alte, così come tra coste ed entroterra. Queste disparità territoriali presto sono diventate disparità sociali: oggi sono aree povere di servizi, ad esempio la sanità, i trasporti, l’istruzione, quindi sono povere di diritti». Un paradosso, se si pensa che la metà dei Comuni italiani, 3850 su 7896, sono montani: «Serve maggiore coesione tra i piccoli comuni, che uniti possono avere più forza e potere decisionale, e servono anche maggiori relazioni tra soggetti pubblici e soggetti privati, perché spesso le aziende attive nelle aree montane sanno trovare risposte ai problemi» sottolinea Bussone. Le reti tematiche di Slow Food lo fanno già: quella dei castanicoltori, ad esempio, unisce comunità, condotte, produttori, cuochi e tecnici consapevoli che le castagne non sono soltanto un frutto straordinario per qualità nutrizionali, versatilità gastronomica, possibilità di conservazione e trasformazione, ma anche un patrimonio eccezionale di biodiversità e una possibilità economica concreta. Una ricchezza delle terre alte, così come lo è il miele. In Italia i Presìdi Slow Food che lo tutelano sono sei, in ogni angolo del Paese: da quello che coinvolge i produttori dell’intero arco alpino a quello sull’Appennino aquilano, dal Carso ai Monti Iblei, fino al Ponente ligure.
Su Alpi e Appennini la chiusura di piccole aziende è incessante e lo spopolamento continua.
Le ragioni sono tante: dalla difficoltà a trovare pascoli e alpeggi in affitto – a volte anche a causa di fenomeni mafiosi – alla chiusura dei macelli di piccola dimensione in tutto il Paese, che ha dato una botta definitiva all’allevamento delle razze autoctone. La burocrazia incombe sui piccoli e chi resiste non ha vita facile. I contributi pubblici non riconoscono i servizi ecosistemici resi da chi vive e gestisce le terre alte. Produrre qualità lavorando il latte crudo è sempre più complicato, perché i consumatori sono poco informati. Ne va del futuro delle nostre produzioni alimentari più tradizionali e identitarie ma non solo: anche dell’equilibrio ambientale dei territori più fragili.
Bosco, fogliame, funghi, cibo, raccontati in una forma non convenzionale e attraverso un’esperienza inedita: un pranzo in cui la materia prima diventa conoscenza, portata dopo portata, grazie alla collaborazione tra realtà che escono dagli schemi per costruire un domani diverso. La cucina di sperimentazione di Antonio Chiodi Latini arriva a Terra Madre Salone del Gusto in un pranzo di divulgazione in cui il cibo è parte di un percorso di consapevolezza, di piacere, di immersione nella natura.