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Cerca e cavatura del tartufo è patrimonio dell’umanità

La “Cerca e cavatura del tartufo in Italia: conoscenze e pratiche tradizionali” è ufficialmente iscritta nella lista Unesco del Patrimonio culturale immateriale. La decisione è del pronunciamento del Comitato intergovernativo dell’organizzazione delle Nazioni Unite riunitosi a Parigi. Un risultato che ha fatto felice i circa 73.600 tartufai associati alla Fnati (Federazione nazionale associazioni tartufai italiani) a cui si aggiungono 44.600 praticanti indipendenti e altre 12 associazioni che, insieme all’Associazione nazionale città del tartufo (Anct) coinvolgono una rete di 20mila liberi cercatori e cavatori.

Un riconoscimento atteso che fa perno su una disciplina antica che coinvolge una vasta comunità, distribuita nei diversi territori regionali italiani i cui protagonisti sono la coppia cavatore-cane e il singolo tartufaio depositari di tecniche e segreti che si tramandano di generazione in generazione. «Dal Piemonte alle Marche, dalla Toscana all’Umbria, dall’Abruzzo al Molise, ma anche nel Lazio e in Calabria sono numerosi i territori battuti dai ricercatori. La ricerca dei tartufi praticata già dai Sumeri, ricorda la Coldiretti, svolge una funzione economica a sostegno delle aree interne boschive dove rappresenta una importante integrazione di reddito per le comunità locali. Il tartufo in particolare in Piemonte è radicato nella tradizione, è particolarmente sensibile all’inquinamento, ai cambiamenti climatici e cresce soltanto in condizioni ambientali molto specifiche.

Una cosa che hanno in comune la maggior parte dei tartufi è la capacità di svilupparsi in terreni ricchi di carbonati di calcio, umidi  ma ben drenati e senza ristagni e ben areati. Queste condizioni si possono trovare specialmente in alcune zone del Piemonte, le più famose per la raccolta dei tartufi: la zona del Monferrato, il Roero, le Langhe, le colline comprese tra la zona est della provincia di Cuneo, a sud di Asti e a sudovest di Alessandria.

 

 

 

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